Il rainbow washing: perché è controproducente per le aziende?

Giugno è il mese del Pride (orgoglio) in tutto il mondo.
La celebrazione del Pride ha origine da una rivolta avvenuta nel giugno del 1969 a New York, nel locale Stonewall, quando la comunità LGBT newyorkese insorse contro una delle frequenti e violente incursioni della polizia.
A partire dal 1973 cominciò ad essere organizzata ogni anno una marcia commemorativa di questo riot, che si è poi diffusa in moltissimi Paesi per rivendicare l’orgoglio e i diritti delle persone LGBTQIA+.
È estremamente importante manifestare per i diritti di tutte le persone che si riconoscono in una delle definizioni comprese nell’acronimo LGBTQIA+, diritti che ancora troppo spesso vediamo essere a rischio anche nei Paesi apparentemente più progressisti.
È però altrettanto vero, però, che il mese del Pride rappresenta un’occasione di marketing che fa venire l'acquolina in bocca alle aziende.
Avrete sicuramente visto simboli arcobaleno in moltissime pagine social di brand di ogni tipo, con il risultato di un'associazione immediata alla comunità LGBTQIA+, che purtroppo spesso risulta molto azzardate (conoscendo i valori dell'azienda) e a volte addirittura in contrasto con le reali azioni messe in campo sul lavoro e ad impatto sociale.
Ad esempio, una nota casa di produzione cinematografica titolare di quasi una decina di parchi divertimento sparsi in tutto il globo ogni anno organizza la propria Pride Parade nella sede europea (chiaramente con un biglietto d'ingresso a pagamento!), per poi finanziare di prima mano le campagne elettorali di politici statunitensi che hanno fatto della "caccia alle streghe" alle persone queer il proprio cavallo di battaglia.
Quindi cos’è il rainbow washing?
Quando parliamo di rainbow washing indichiamo le strategie di comunicazione collegate alla comunità LGBTQIA+ messe in atto da moltissimi brand e aziende durante il mese del Pride, per accrescere la propria percezione sul mercato e in generale aumentare le vendite, targetizzando proprio le persone LGBTQIA+ e al solo fine di lucro.
L’accusa di rainbow washing avviene quando c’è una pesante discrepanza tra i valori associati alla bandiera arcobaleno e l’effettivo comportamento del brand o azienda. In moltissimi casi, come abbiamo visto, ancora oggi molte aziende o brand, che includono loghi arcobaleno ovunque nella propria comunicazione, hanno invece comportamenti e politiche altamente discriminatorie verso le persone LGBTQIA+, in barba alla maschera di diversity & inclusion con cui si agghindano.

Il rischio del rainbow washing
Se è vero che associare il proprio marchio ai vari simboli LGBTQIA+ può portare visibilità alle aziende, è altrettanto vero che questa scelta può rivelarsi controproducente se non abbinata a politiche attive all'interno della propria azienda (come formazioni DE&I, assunzione di persone trans, etc.) e portare invece a accuse di rainbow washing, con un conseguente danno di immagine difficile da recuperare.
Specialmente nelle giovani generazioni, la consapevolezza di sé e l’identificazione in un’identità LGBTQIA+ sono in aumento. Secondo una recente ricerca, Millennials e Gen Zs sono più propensy a comprare da brand e aziende di cui ne condividono i valori.
Per questo motivo, durante il mese del Pride quasi tutte le campagne includono bandiere arcobaleno nella propria comunicazione.
Molto spesso, però, sono proprio i valori e le politiche di inclusione a rappresentare il punto debole di questa strategia di marketing.
Se le politiche di Diversity & Inclusion di brand e aziende sono solo di facciata, non supportate da azioni concrete e dimostrabili, la perdita di credibilità del brand o azienda è pressoché automatica.
Le persone LGBTQIA+ in particolare, ma y consumatory in generale, oggi sono molto attenty a queste tematiche, che rappresentano un metro di giudizio oltre che un criterio di scelta su come investire i propri soldi.
Se le aziende o i brand non dimostrano nei fatti di essere attente all’inclusione di tutte le diversità, ma ne sfruttano i simboli per soldi, il danno di immagine è inevitabile.
Inoltre, l’uso a sproposito degli arcobaleni rischia di svilire anche tutte le campagne per l’affermazione dei diritti della comunità LGBTQIA+, con conseguenze sociali molto pesanti, come, ad esempio, la credenza che sessualità ed identità di genere siano solo una moda passeggera.
L’appropriazione fraudolenta di simboli culturali non effettivamente condivisi e supportati comporta dunque un doppio danno: a chi ne fa un uso sbagliato e alla cultura che ne viene colpita.

Cosa si può fare allora?
L'idea è quella di andare prima ad implementare politiche attive all'interno della propria azienda o luogo di lavoro (come l'inserimento dei pronomi nella firma elettronica, istituire servizi igienici gender neutral e apporre in tutti i bagni assorbenti mestruali o ancora assumere in quantità personale queer in progetti di ricollocazione di soggettività provenienti da contesti di guerra o povertà) e introdurre per tutty y dipendenti formazione DE&I obbligatoria.
Solo allora si può pensare di comunicare al mondo esterno - la clientela - il proprio posizionamento sociale per mezzo di campagne marketing che fanno uso di simboli e costumi della comunità LGBTQIA+.
E per chiudere il cerchio, sarebbe ottimale devolvere parte degli incassi del Pride Month ad associazioni e organizzazioni sul territorio che si curano del supporto, salvaguardia e tutela delle persone queer.
Se non si ha il desiderio o la volontà di mettere in pratica tutte queste azioni (che erano solo esemplificative, se ne potrebbero fare moltissime altre), allora forse è meglio evitare di praticare rainbow washing e scegliere di cavalcare l'onda di altre festività o occasioni marketizzabili.
Magda Basso & Giulia De Bellis